Edilizia popolare, cresce la voglia di riscatto
Le occupazioni abitative «rappresentano l’unica vera politica per il diritto all’abitare che esista in questo Paese». La parlamentare europea Ilaria Salis lo scrive sui social in un lungo post dal titolo Giambellino, la criminalizzazione della lotta per la casa pubblicando alcune immagini del cortile di un caseggiato Aler-Azienda lombarda edilizia residenziale, nel quartiere alla periferia di Milano. Secondo l’eurodeputata eletta nelle liste di Avs «la narrazione secondo cui l’occupante ruberebbe casa alla signora anziana serve solo ad alimentare la guerra tra poveri e a sollevare gli enti gestori dalle proprie gravi responsabilità.
Non descrive minimamente la realtà dei fatti». «Alle volte – sottolinea Salis – capita che, in quartieri periferici e trascurati come il Giambellino, un gruppo di persone diventi una comunità solidale. Questa comunità cresce, si organizza e reagisce all’abbandono e all’ingiustizia con azioni concrete: si apre un doposcuola, una mensa popolare, una scuola di italiano; si creano momenti di sport e socialità e occasioni in cui, tutti insieme, si fa manutenzione nei cortili e nelle abitazioni. Spazi dove normalmente si sopravvive appena, diventano luoghi in cui vivere bene.
Gli occupanti eliminano muffa e sporcizia, imbiancano le pareti e cambiano i sanitari, questi ultimi spesso distrutti da Aler stessa per scoraggiare le occupazioni e impedire le assegnazioni allo scopo di fare delle case vuote oggetto di speculazione edilizia. Quegli spazi degradati tornano a essere luoghi accoglienti che possono ospitare la vita». Dichiarazioni che fanno riflettere. Soprattutto in una città come Napoli, dove l’edilizia popolare si è dimostrata fallimentare. Basti pensare alle “Vele” di Scampia. La situazione di degrado rende necessario un piano di progressivo sgombero.
L’attenzione su questi edifici – che sorgono nel quartiere detto anche ex 167, dal nome di una legge che favorì l’edilizia popolare – è tornata attuale dopo il disastro del luglio scorso, quando nella “Vela Celeste” è crollato uno dei percorsi di collegamento che vanno dal corridoio centrale agli appartamenti, causando la morte di tre persone e il ferimento di altre, tra cui anche dei bambini. Per gli abitanti della “Vela Celeste” che hanno dovuto lasciare le loro case il Comune ha previsto l’elargizione di un contribuito per l’autonoma sistemazione. Ma gli abitanti lamentano il fatto che pur avendo il bonus non riescono a trovare case in affitto perché, in tantissimi casi, impossibilitati a fornire delle garanzie (come un contratto di lavoro) ai locatori. La zona è interessata da un piano di riqualificazione urbanistica, finanziato con i fondi del Pnnr. Delle ultime tre “Vele” rimaste, ben due dovrebbero essere abbattute per far spazio a nuovi e più confortevoli edifici di edilizia popolare. Ed è proprio la “Vela Celeste”, quella interessata dal crollo, che resterà in piedi e che sarà sede di servizi pubblici. Il progetto prevede anche la realizzazione di spazi destinati all’agricoltura urbana (orti e frutteti sociali), un parco pubblico, una fattoria con finalità ludiche e didattiche, un mercato di prossimità, un complesso scolastico con scuola dell’infanzia per 120 bambini e un asilo nido per 50-60, un centro civico con funzioni sociali e culturali.
Per anni le “Vele” sono state il simbolo della Napoli di Gomorra, delle piazze di spaccio. Ma le “Vele” di Scampia sono poi diventate – almeno nelle intenzioni – emblema del riscatto della città, della rivincita di un quartiere e della sua gente che si è impegnata senza mai risparmiarsi.
Mentre nel quartiere Ponticelli, il clan De Micco-De Martino aveva messo su «un sistema per controllare blocchi di edilizia popolare per lucrare sulle attività lecite e illecite, ma anche per il controllo personale di chi ci abita». A dirlo è il capo della Squadra Mobile di Napoli, Giovanni Leuci, rivelando alcuni dettagli sull’inchiesta che ha portato a 60 arresti nella periferia est della città. Per gli alloggi popolari esisteva un prezziario che prevedeva l’assegnazione a famiglie compiacenti, ma il clan lucrava anche nel passaggio – una sorta di vendita dell’alloggio – da un occupante abusivo all’altro.
Per una compravendita illegale il costo era di circa 5mila euro se persone non gradite, la metà per gli affiliati. Serve al più presto un ritorno alla legalità. Le risorse non mancano. Tra fondi per l’edilizia popolare e la rigenerazione urbana, Napoli non può perdere l’ennesimo treno. Le occupazioni abusive non possono e non devono essere l’unico sistema per rispettare il diritto alla casa e favorire «accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione» (articolo 47 della Costituzione).
(M. C.)
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