Granili, il palazzo che non c’è

di Luigi Cacciatore

Nella seconda metà del 700, nonostante il fulgido esempio del suo predecessore, Carlo III, nemmeno Sua Maestà Ferdinando IV riuscì nell’intento di processare completamente quell’ardito programma di rinnovamento urbanistico della città di Napoli, al quale, per tutto il periodo di assolutismo, la famiglia reale borbonica aspirò.
La complessa struttura orografica dei siti e il rilevante numero di conventi e fabbriche religiose da un lato, i precostituiti interessi politico-economici dall’altro, impedirono di ridisegnare un sistema urbano secondo gli ideali e gli stilemi tecnici dell’urbanistica illuminista, contrariamente a quanto avvenuto per il nuovo tracciato nel bosco di Capodimonte o nella tenuta di Persano.
Benché vi fossero le premesse per una profonda ristrutturazione del tessuto urbano e una diffusa trasformazione edilizia, in concreto non si eseguì alcun intervento globale, ma al contrario, al di là delle grandi realizzazioni, la città vide un proprio svolgimento per isolati episodi, soprattutto grazie alla costruzione di grandi edifici pubblici, simboleggianti la nuova realtà politica ed esaltanti la potenza monarchica, ambito in cui gli architetti della Corte, scelti soprattutto nell’ambiente romano, riuscirono ad assecondare le volontà reali rispetto ai colleghi locali (come Medrano e Canevari), declinando nel contesto socio-politico il linguaggio delle nuove architetture ufficiali.
L’utopico programma socio-edilizio borbonico poteva però contare sulla tenacia e continua ispirazione del giurista Tanucci, il quale, anche durante la reggenza del giovanissimo Ferdinando IV, non cessò un solo giorno di informare il padre del successore, Carlo III, sugli eventi del Regno, trasmettendo periodicamente alla Spagna, con fermezza e diligenza militare, le sue lettere di rapporto. L’ondata di carestie costituì, nell’affermarsi di un crescente processo di inurbamento avvertito anche in altre parti d’Europa, un ulteriore banco di lavoro del Tanucci: sancita l’espulsione dei Gesuiti dal Regno, acquisì tutte le loro proprietà intestandole alla Corona per promuovere i medesimi scopi della Compagnia del Gesù, ossia l’organizzazione delle scuole e l’assistenza sociale per i ceti più poveri. Per il godimento di quei beni, il Ministro ricorse al diritto di enfiteusi ossia, a fronte di modesti guadagni per la Corona, veniva garantito l’accesso allo sfruttamento immobiliare anche ai ranghi sociali più umili e bisognosi. Maturò così l’idea di realizzare un regime produttivo di piccole proprietà contadine per ripopolare le campagne in corso di abbandono: nell’arco di un decennio si avviò la riforma agricola più significativa del Settecento.
Non cessavano però di giungere nella capitale intere famiglie stremate dalla fame provenienti dalla Calabria e dalle Puglie; nell’ambito del vasto programma di re-inserimento sociale, il sistema ricettivo per i poveri venne garantito dalla realizzazione dell’Albergo per mano dell’architetto del Regno Ferdinando Fuga, simbolo di una Corona caritatevole, illuminata dall’umiltà.
Il problema della fame dilagante e del potenziale sciacallaggio che vedeva l’aumento dei prezzi al dettaglio, venne affrontato dal Ministro Tanucci con lucidità e fermezza: consigliò al Re di commissionare un intero palazzo per conservare le derrate alimentari, precedentemente acquistate in gran quantitativo per fare fronte alla carestia; il progetto venne nuovamente affidato senza indugio all’architetto toscano Fuga, che tradusse il volere della reggenza, come avvenuto sotto Re Carlo per l’Albergo dei Poveri, nell’organismo architettonico di una fabbrica di lavoro, concepita a scala territoriale ed altrettanto vasta.
Il palazzo dei Granili, ove avrebbero ubicato i granai pubblici della città, gli arsenali d’artiglieria e le fabbriche di cordami, vide la luce, si presume, nel 1779, apparendo per la prima volta nella pianta del Rizzi-Zannoni del 1790. Fuga individuò immediatamente il sito adatto lungo il tracciato della linea di costa, al di là del ponte della Maddalena: avviò così la sua ciclopica composizione determinando con immancabile nitidezza cartesiana la cellula di ripetizione, ordinando con ritmica costante e lineare, il piano e l’alzato, per tutti i fronti della scatola muraria.
Il processo di reiterazione della cellula elementare, quasi una sorda ripetizione di masse costruite sul selvatico arenile, definì, con straordinaria evocazione geometrica l’essenziale praticità della destinazione d’uso dell’intero organismo edilizio, impiantato sul fronte marino e rivolto alla sua retrostante civiltà quale simbolo di un’affermata società, illuminata dalla ragionevolezza del progresso, e per la quale si poneva, anche nel pieno di un’imminente crisi sanitaria, protagonista della storia europea.
L’architettura della facciata principale, scandita verticalmente solo dalla presenza di sobrie paraste toscane, confermava il proprio carattere di essenzialità e rigorosa funzionalità collettiva esaltandosi in mastodontiche dimensioni urbanistiche: una massa estesa per 560 metri costituita da tre livelli fuori terra stabiliva in quel brano di città un nuovo piano prospettico, dinamico e contrapposto alle viste prospettiche centrali e definite prevalse nel periodo precedente. Nella ricerca del punto di osservazione, il Fuga convalidò gli esiti derivanti dal suo processo di sintesi compositiva: estremizzò la semplificazione formale dell’intero apparato in favore della veduta tangenziale – caratterizzante tutti i nuovi edifici borbonici – operando così la scelta, come per l’Albergo dei Poveri, di affermare l’idea ancor prima dell’immagine.

Il Palazzo dei Granili oggi.
È scomparso, non c’è più.
Dopo anni di utilizzo per scopi militari, fornì riparo a centinaia di famiglie nel corso del secondo conflitto mondiale, sino alla sua demolizione, voluta dal Genio Civile a seguito di diversi crolli parziali della struttura.
Eppure, era lì, contro la fame di tutti.
Una sorta di grande stomaco.
Ma socchiudendo gli occhi, forse, ancora si vede.
No.
O forse sì.

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