L’Urlo dell’innocenza: l’opera di Francesco Terrone

Quando un uomo solo con se stesso sulla faccia della Terra scrive della rugiada che gli imperla il cuore, quell’uomo si fa poeta. E la parola diviene il mezzo e lo strumento per scendere nel profondo di se stesso attingendo a quell’oceano sommerso che è il suo inconscio.
Quando un uomo, solo con la sabbia del proprio vissuto fra le mani, la impasta con l’umido delle sue attese e dei suoi dolori, ecco che si fa scultore di parole ed emozioni, palombaro alla ricerca del proprio io più autentico e sommerso.
Francesco Terrone è poeta e scultore di emozioni che con la parola, e forse nonostante la parola, cerca di attingere da se stesso per comprendere prima che per narrare.
La parola, nella silloge di Terrone, diviene la lente di ingrandimento che permette al poeta quel tentativo di dominio delle emozioni della vita che è la vera ricerca di ogni essere umano. Ne Il colore degli aquiloni della presente raccolta “L’urlo dell’Innocenza” (Edizioni I.R.I.S.), l’aquilone non è solo gioia ma “voglia di possedere il mondo legandolo al guinzaglio di mano inerme”. L’aquilone è la vita in balia del vento ed è metafora del mondo che il filo-pensiero-coscienza tenta di dirigere e governare. Ma attenzione: la mano che stringe il filo è quella di un bambino quasi che, sembra dirci Terrone, lo sforzo di comprensione del suo mondo risalga a lui bambino. O quasi che siano solo le categorie dell’innocenza della spensieratezza e della fantasia bambine quelle per le quali la comprensione del mondo diviene categoria attingibile.
I bambini, dicevamo. I bambini sono i grandi protagonisti di quest’opera dal titolo drammatico: “L’urlo dell’innocenza”. Ma non solo i bambini, viene il dubbio. Anche il poeta bambino o forse il bambino che ancora sopravvive nel poeta adulto. E il mondo dell’infanzia irrompe prepotente nelle liriche. Sono le emozioni del “vicoletto” che tornano a galla, “i venditori ambulanti”, “i passanti”, “qualche asinello”, “un fraticello”, immagini simboliche, piccoli-grandi temi che ricamano la tela del “giardino dei profumi e sorrisi” che il poeta continua a coltivare dentro di sé per attingere, oggi con la poesia, al ristoro degli anni dell’innocenza. Perché la poesia è sempre archeologia delle emozioni, è sempre terapeutica negli anni della maturità e del dolore. Perché il dolore bussa alla porta, rende molti “creature senza più sogni, creature senza più lacrime, senza più un Dio” che si prenda cura delle loro sofferenze. L’uomo allora diviene creatura sola e abbandonata, talvolta resa cinica dal dolore e dal bisogno – spirituale o materiale –, l’uomo diviene spesso colpevole. Non il poeta, il cui dolore a tratti sfocia nella perentorietà del giudizio (“maledetti menzogneri, andate via… unica vostra speranza è la dannazione e maledizione eterna”), ma più frequentemente abita i luoghi del dubbio, della paura di morire, della percezione di sé come un “guerriero di latta”. E dal dolore di vivere si scivola nelle liriche intense di un dolore più strettamente personale, senza senso e senza nome, quello di una maternità e di una paternità appena assaporate: dramma sconfinato e lacerante di una vita appena sbocciata a cui crudelmente il fato ha voluto strappare quella messe di possibilità e futuro che è il tempo per ogni essere umano.
I versi in questi componimenti si fanno grido di dolore. L’anima cerca, con le parole, di comprendere il senso, di cullare il ricordo, di immaginare quei passi mai camminati. L’aggettivazione incalza, si fa tenera, si scioglie quasi in una ninna nanna a quel “bambino trasportato dal vento”, a quel “figlio senza sole”, all’urlo notturno della madre, al dolore inconsolato del padre. Il poeta sembra voler cantare una ninna nanna di cura e di presenza anche a se stesso, al sé bambino piccolo e impotente dinanzi a tanto destino. È la ninna nanna dolcissima del ricordo, delle carezze, dei gesti di protezione e di accudimento, dell’“albero rimasto senza foglie”. Un albero tuttavia ricchissimo di quella linfa vitale che profonde nei versi di Francesco Terrone, nella sua vita e certamente nelle nuove primavere a venire.
Marco Frittella

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