Ma che cosa resterà della Venere e di Pulcinella?
L’impatto, certo, è stato deflagrante. L’installazione del Pulcinella stilizzato, ideato, ma in corso d’opera parzialmente modificato, dal defunto Gaetano Pesce, ha suscitato per giorni un dibattito veemente, tanto acceso quanto mai si era registrato per un’opera d’arte contemporanea, per lo meno a Napoli. Ora che le polemiche sembrano essersi sopite e che il tronco dall’aspetto fallico troneggia a piazza Municipio davanti a migliaia di occhi incuriositi, di napoletani e soprattutto di turisti, va la pena di prospettare qualche ulteriore valutazione, sgombra dalla passione della polemica e dai lazzi dell’ironia. Sine ira et studio, avrebbe scritto Tacito.
Partiamo da una premessa: Napoli conserva un inestimabile patrimonio che deriva dal passato, reperti greci, romani, chiese straordinariamente belle, tutti gli splendidi tesori monumentali e artistici che qui hanno lasciato dinastie, non solo dominatrici, ma anche illuminate. La storia, il passato, la tradizione conducono quindi all’esaltazione dell’arte classica, come l’abbiamo ammirata per secoli e studiata. Ma in questo scenario, diremmo naturale, nella seconda parte del Novecento, proprio a Napoli, a conferma che la vena artistica della sua popolazione riesce sempre ad alimentarsi e ad adeguarsi ai tempi, si è andata affermando un’effervescente stagione di contemporaneità, che si è sempre più consolidata in questi primi decenni del Duemila e che fa oggi di Napoli, appunto, un crocevia non solo nazionale, ma internazionale, dell’arte dei giorni nostri.
Tutto partì all’inizio degli anni ‘60 quando si formarono dei veri e propri cenacoli, attorno ad artisti come Gianni Pisani, Rosa Panaro, Mathelda Balatresi, Giannetto Bravi e successivamente divennero grandi attrattori le gallerie di Dina Carola e di Lia Rummo, lo studio Trisorio e lo studio Morra. Ma furono gli anni ’80 a determinare, grazie alla lungimiranza di Lucio Amelio, il fragoroso germogliare dell’arte contemporanea in città. Amelio trasse dalla spaventosa tragedia del terremoto in Irpinia lo stimolo per dar vita a quella che sarebbe diventata una delle più importanti collezioni d’arte contemporanea in Italia, Terrae Motus. Chiamò a raccolta artisti come Alfano, Di Bello, Cucchi, Pisani, Longobardi, Fermariello, Paladino e Tatafiore e organizzò a Napoli lo storico incontro tra Andy Warhol e Joseph Beuys. Un mecenate.
Ma fu grazie all’azione propulsiva di Antonio Bassolino, sindaco di Napoli (lui che dorme con la “Storia della letteratura latina” sul comodino), che questo movimento, ristretto fino ad allora ad avanguardie elitarie, fece esplodere livello più popolare la manìa della contemporaneità. Bassolino inventò le installazioni a piazza Plebiscito e i giochi li aprì Mimmo Paladino, a dicembre del 1995, con la “montagna di sale”. Nacquero in quella circostanza le prime polemiche, anche se l’opera, accolta con qualche scetticismo, suscitò comunque grande entusiasmo. Molti ne approfittarono per portar via manciate di sale, ma Paladino non se ne adontò, li considerò gesti facenti parte dell’interazione opera-ambiente.
Dopo Paladino si alternarono, sempre a piazza Plebiscito e alla fine di ogni anno solar, altri artisti di fama internazionale, come Kounelllis, Kapoor, Serra, Kosuth e soprattutto Rebecca Horn, morta recentemente, forse la più celebre di tutti, almeno a livello di esperienza espositiva napoletana, per le sue “capuzzelle di morto”, che scatenarono consensi, ma anche critiche, del tutto ovvie in un contesto particolarmente sensibile alla scaramanzia.
Quella ventata di modernismo suscitò lo stimolo per la creazione di musei che raccogliessero opere e non le lasciassero quindi solo ad un effimero ricordo. L’entusiasmo di Eduardo Cicelyn condusse alla fondazione del MADRE, poi vennero il PAN, il museo Nitsch della fondazione Morra, il museo del Novecento a Castel Sant’Elmo, la sezione d’arte contemporanea al Museo di Capodimonte, la fondazione Morra Greco e le stazioni dell’arte, prima fra tutte la celeberrima di Toledo.
Anche durante la gestione De Magistris si registrarono iniziative di un certo spessore, una per tutte il mega corno che pure sollevò infinite polemiche. Più recentemente l’amministrazione Manfredi ha scelto lo slargo della nuova piazza Municipio equi si sono alternati i lupi del cinese Ruowang, la “Venere degli stracci” di Pistoletto (incendiata e rifatta) ed ora il Pulcinella (intitolato “Tu sì na cosa grande”) di Pesce, inquadrato nella rassegna curata da Vincenzo Trione. Anche in tutte queste ultime e recenti iniziative, decisamente provocatorie, non è mancata la polemica. Manfredi per primo ha replicato: il successo è insito nella provocazione, questo è lo spirito dell’arte contemporanea. Gli ha dato conforto lo stesso Sgarbi, che pure è di “gusto classico” e non sempre apprezza: “Il fatto che un’opera d’arte faccia discutere è il significato stesso, vuole determinare ironia, divertimento”. Ed ha aggiunto: “Non c’è da parte di Pesce una provocazione, ma un’interpretazione delle mille anime di Pulcinella, una delle quali è anche quella che ha forza di trazione erotica che si vede in quest’opera con riferimento sentimentale dei due cuori trafitti”.
Provocazioni finalizzate ad essere l’essenza stessa dell’arte. Non c’è spazio, quindi per le contestazioni? No, qualche considerazione critica consentiteci di esprimerla. A prescindere dalla bellezza intrinseca delle opere, discorso scivoloso che porterebbe nel campo minato del discrezionale, resta una valutazione incontrovertibile: l’arte contemporanea, se si eccettuano le opere che finiscono nei musei (peraltro sempre più meta di visitatori) è però un’arte che si sviluppa anche nell’effimero. Che fine hanno fatto la montagna di sale, le capuzzelle di Rebecca, la Venere degli stracci? Restano solo le testimonianze della loro esistenza sulle raccolte dei giornali cartacei, nelle teche delle televisioni e su Internet. Svanite nel nulla. Questo forse è l’aspetto più difficile da digerire. Non possono bastare la provocazione e la curiosità che ne scaturisce, alle generazioni future che magari saranno sempre più portate ad ammirare e a prediligere questo tipo di opere, che cosa riserveremo? Noi, e intendiamo riferirci alle nostre generazioni, la Pietà e la Gioconda, se ci vien voglia di andarle ad ammirare, possiamo sempre farlo, basta andare a Roma o a Parigi.
Infine un ultimo rilievo su piazza Municipio, il teatro sul quale si è consumata la querelle del Pulcinella di Pesce e sul quale si è consumata la tormentata vicenda della Venere di Pistoletto. Non sappiamo se, al di là delle installazioni che occupano comunque uno spazio limitato a ridosso della fontana antistante Palazzo San Giacomo (ottima idea di trasferirla proprio lì), il progetto preveda che sia vivacizzato quell’arido deserto di cemento creato al di sopra del tunnel che dalla stazione della metro conduce al porto. Una piazza senza anima. Abominevole.
Lauro, il tanto vituperato Lauro, quello delle mani sulla città, aveva trasformato piazza Municipio in una delle piazze più belle d’Europa, con aiuole, alberi e fontane zampillanti. Splendida. Se rimanesse così com’è ora dovremmo chiedere la giubilazione (metaforica, ovviamente) del progettista.
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