Napoli, un franfellicco per tutti
“Vì quant’è bbella Napule, pare ‘nu franfellicco ognuno véne allicca arronza e sse nne va”. L’antica filastrocca napoletana, ci rimanda l’immagine della città partenopea, bella e opulenta, su cui si posavano gli occhi vogliosi dei conquistatori, come su di un dolce franfellicco (una caramella a forma di bastoncino), leccata a sazietà e abbandonata dopo averla depredata.
Napoli, ad oggi, mantiene ancora la sua funzione di franfellicco, anche se il gusto dei conquistatori con il tempo si è modificato: sono più attenti a mantenere una dentatura priva di carie, non fosse altro per mostrarla al pubblico, televisivo o social che sia, intenti a sostenere i soliti stantii luoghi comuni, stereotipi… Napoli quale città simbolo del male assoluto. Una verità dogmatica, sostenuta dai media, che ha l’effetto di produrre un liberatorio sospiro di sollievo che si espande in cerchi concentrici in ogni dove. Così che tutti possano percepirsi in veste di vergini claustrali, a cui sono stati emendati inconfessabili peccati. Se ne servì finanche un texano, che conobbi qualche anno fa, il quale saputa la mia provenienza, non potè fare a meno di usare quella “verità” e definire “Napoli città più pericolosa del mondo”. Cercò di spiegare che aveva avuto modo di apprenderlo da Saviano, dopo aver letto Gomorra E voilà! Finanche in Texas potevano alleggerirsi la coscienza. Dopotutto, lo stesso Saviano ha più volte affermato, con un certo orgoglio, che il libro è stato venduto in cinquanta paesi, così come la serie televisiva, e tradotto in dodici lingue, per cui è del tutto normale che la parola Napoli, produca in centinaia di milioni di persone la stessa associazione mentale di quel texano. Una narrazione negativa costante e riproposta da oltre 163 anni, di cui Saviano è un indiscutibile oracolo. Una riconferma del lombrosiano marchio “delinquenti per indole naturale”. Una intensa opera di convincimento . Così, per Saviano i ragazzi napoletani autori degli ultimi esecrabili episodi di violenza contro loro coetani hanno caratterisitiche criminali ben precise, e tutte riconducibili a camorristi in erba, non paragonabili alle baby gang (si sa che queste impreversano maggiormente al Nord e commettono atti criminali, quanto e più di quelli compiuti dai napoletani, ma non “godono” della medesima attenzione da parte dei media) che, a suo dire, sono “comitive violente, persone che si radunano in qualche angolo della città e fanno teppismo, al massimo grado della loro evoluzione criminale cacciano coltelli e fanno qualche rapina. Qui è camorra”. Le baby gang, cui fa riferimento Saviano, sono quelle che, negli stessi giorni in cui sono avvenuti gli episodi a Napoli, si sono rese protagoniste di accoltellamenti sfociati in omicidi a Milano, in più occasioni; al povero clochard a Pescara; o ad uccidere un imprenditore giapponese; a Treviso; ad eliminare un diciassettenne a Salsomaggiore… Insomma, per Saviano esse sono tutte comitive in gita di piacere che giocano con i coltelli per puro divertissement. Un gioco al ribasso che tende al sollevamento della colpa, a parità di atti criminali. In quest’ottica viene rappresentata la violenza giovanile del Nord, che riprendendo quella narrazione negativa mantenuta pedissequamente da oltre un secolo e mezzo, vede l’attenzione rivolta in un’unica direzione (Napoli). Nonostante Milano risulti in testa alla classifica, come città con la maggiore presenza di attività criminale). Un tipo di narrativa, in cui trova particolare interesse la cinematografia nazionale ed estera. Una morbosità e un’enfasi che si traduce in film e fiction sulla gioventù napoletana, quella deviata, beninteso. Non si registra lo stesso interesse di sceneggiatori e registi, nel proporre la violenza dei ragazzi milanesi, torinesi, trevigiani…. Insomma, nessuna fiction sulla delinquenza giovanile presente nel resto d’Italia. Non fa audience. Ovvio. Quelle napoletane sono funzionali al rinnovamento del marchio. A parti inverse, troverebbe una risposta indignata, così come quella dei perugini che, alla notizia della fiction sul delitto di Meredith Kercher, hanno già fatto sapere di non essere favorevoli, perchè procurerebbe un danno d’immagine alla città che, vista come violenta, allontanerebbe i turisti. Ma come si tramuta in efficace campagna denigratoria una fiction? Alla ben nota serie di Gomorra, da cui ha preso avvio il “gomorra model” e inciso profondamente sulla formazione educativa dei giovani, dando vita al’effetto emulativo, segue Mare Fuori; Resta con me; Ragazzi Fuori; Mery Per Sempre (Palermo)… Ma vediamo se ve ne sono anche sulla devianza giovanile di Milano, Torino, Bologna, Venezia, Trieste…
Da “La Compagnia del Cigno”, che narra le vicende di studenti volenterosi, milanesi, del conservatorio Giuseppe Verdi di Milano (neanche a parlarne di quelli del Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli, considerato dal maestro Muti ben più importante di quello milanese) a “Ognuno è Perfetto”, ragazzi con sindrome di down integrati in ambito lavorativo; a “Non mi Lasciare”, storia di ragazzi veneti sequestrati a scopo pedopornografico; fino a “I Ragazzi dello Zecchino d’oro”, la cui storia si svolge a Bologna, e racconta la vita di un ragazzo figlio di immigrati siciliani che, alla scuola frequentata da studenti bolognesi, preferisce la vita di strada nella banda del fratello. Impossibile non cogliere l’intento, neanche tanto nascosto, dietro questa fiction.
In nessuna di queste fiction vi è la presenza di una devianza giovanile di quelle aree: tutti bravi, belli e buoni.
E nel caso scarseggiassero le fiction in chiave napoletan-camorristico, perché anche gli sceneggiatori hanno bisogno di riposo, ci sono pur sempre i vari documentari chiamati ad alimentare il clichè, usando espedienti molto discutibili, come quello messo a punto nel 2011 dal National Geographic Channel, con una puntata dal titolo “Napoli, i re del borseggio”, in cui venivano mostrati borseggiatori napoletani “all’opera”. Prima della messa in onda si scoprì che erano attori ingaggiati dallo stesso National Geographic per inscenare i finti borseggi. Ma malgrado le proteste, il National geografhic fece saper che sarebbe andato ugualmente in onda.
Nel 2016 fu la volta del servizio del giornale L’Espresso, sulla cui copertina compariva la foto di tre ragazzi incappucciati che impugnavano delle pistole, su cui campeggiava la scritta “Sparanapoli” .
Nel 2018, fu la volta del regista Gaetano Di Vaio denunciare, dal suo profilo facebook, quanto accaduto al figlio studente, il quale gli aveva raccontato di essere stato avvicinato fuori dalla scuola da alcuni inviati de La7, i quali gli avevano chiesto di riunire un gruppo di amici e simulare una “stesa”, nel mentre venivano ripresi. Si rifiutò.
Vogliamo disconoscere la presenza di una violenza giovanile a Napoli? Nient’affatto. Ma resta da chiedersi se si è più interessati a riconoscere e rimuovere le cause, che sono alla base del comportamento giovanile, giacché nessuno nasce “difficile”, prendendo atto che esso è un problema nazionale e internazionale, o se si è più interessati a far sfoggio di sapienza nell’arte della deresponsabilizzazione.
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