Parthenope? Un senso non ce l’ha
Raramente negli ultimi tempi un film italiano ha fatto discutere, e sta facendo ancora discutere a più di un mese dall’uscita nelle sale, come Parthenope, l’ultimo di Paolo Sorrentino. Non è la prima volta, peraltro, che accade con Sorrentino, che già con “La grande bellezza”, “Loro” e “Il Divo” aveva suscitato in passato infuocati dibattiti fra il pubblico e fra la critica. Ma diciamo che, in tutta evidenza, questa volta si è superato ed ha battuto ogni precedente record come suscitatore di polemiche e di divisioni.
Perché? Perché Sorrentino non è un regista come tutti gli altri, ma appartiene a quel filone di autori eccentrici, visionari, che amano arricchire le loro storie con tratti fantasiosi e idee letterarie (lo hanno sempre avvicinato a Fellini, Bergman e Antonioni) e che, soprattutto, almeno l’ultimo Sorrentino (ad eccezione di quello di “E’ stata la mano de Dios”) inseguono il loro sogno e spesso finiscono per dimenticare lo sviluppo logico della trama. Insomma i suoi film, per capirli, lo spettatore deve vederli almeno un paio di volte, se non tre. E basterebbe solo quest’ultima considerazione per farlo etichettare come “divisivo”. E’ difficile, infatti, che alla prima visione lo spettatore medio esca dalla sala senza manifestare un senso di smarrimento e qualche perplessità.
Stiamo parlando però del Sorrentino che fa film anche provocatori e che suscita incertezza nel giudizio dello spettatore comune.
Con Parthenope però è andato ben oltre, e la critica qualificata si è spaccata. Pareri unanimi sulla fotografia, splendida. Ma non è un gran merito. Le ambientazioni a Posillipo e a Capri si celebrano da sole, anche un dilettante con telefonino riuscirebbe a trarne immagini accattivanti. Il solco della contrapposizione si è creato invece sul contenuto della pellicola. E sotto due aspetti. Il primo riguarda la trama, lo sviluppo della vicenda. Non è affatto semplice, infatti, seguire il susseguirsi logico e lineare delle varie fasi del racconto. In certi frangenti sembra quasi che un racconto in effetti non ci sia, si avverte una sorta di scollegamento e molti passaggi appaiono avulsi, non collegabili al filo della narrazione.
Ha commentato Eduardo Cicelyn, giornalista, editorialista del “Corriere del Mezzogiorno”, esperto d’arte e già direttore del Madre: “Sorrentino rimastica frasi fatte e luoghi comuni spruzzando qua e là solo artifici di linguaggio. E’ il destino della peggiore arte del nostro tempo: una programmatica, pervicace, ottusa mancanza di originalità alla quale sopperisce il nostro spasmodico bisogno di trovare un senso dove, per dirla con Vasco, un senso non ce n’è”.
L’altro aspetto contenutistico, decisamente più grave, riguarda almeno un paio di passaggi che vedono protagonista l’indemoniato (come lo definisce Titta Fiore) vescovo Tesorone, magistralmente impersonato da Peppe Lanzetta. E in questo caso Sorrentino è andato davvero oltre la licenza artistica. Come è possibile che un regista acclamato, vincitore di Oscar, a prescindere dalle strampalatezze che compaiono in Parthenope e in genere nelle sue criptiche visioni oniriche, per provocare debba far ricorso alla scena del sangue delle mestruazioni come sostitutive del sangue di San Gennaro che tarda a liquefarsi? O, peggio ancora ricorra alla scena dell’amplesso che si consuma fra il vescovo e la bella protagonista vestita solo dei monili del tesoro, il tutto all’interno del Duomo (o almeno in un ambiente ricostruito chiaramente rapportabile al tempio).
Non si tratta di essere bigotti, chi scrive non frequenta chiese per pregare da varie decine di anni. Ma le scene blasfeme di Parthenope sono ai limiti del reato contravvenzionale previsto dal nostro codice (vilipendio della religione), mortificano milioni di italiani (e non solo) cattolici osservanti che credono nella Chiesa e vanno a messa ogni domenica. Se queste stesse scene Sorrentino le avesse girate in una moschea, ammesso pure che vi fosse riuscito, sarebbe stato subito colpito da una fatwa e probabilmente sarebbe già un uomo morto.
Ha commentato sul “Roma” don Rapullino, uno dei tanti preti di frontiera che operano a Napoli, protagonista in passato di veementi prese di posizione: “San Gennaro non lo doveva toccare. Invece lo ha fatto e nel suo film Parthenope ha oltraggiato tutta Napoli. Altro che amore per la città. Che appaia bella, vabbè, ci voleva poco. Ci riusciamo tutti con uno smartphone di qualità. Inquadrature ariose e luminose… e che ci vuole? Lo fanno benissimo tutti i videomaker delle pubblicità. Ma raccontare i suoi ricordi inserendo in questo film il prodigio dello scioglimento del sangue di San Gennaro, con una grottesca immagine di fedeli che si accontentano pure delle “mestruazioni” di una donna del popolo pur di soddisfare il proprio desiderio di miracolo. È troppo. Poi quel ‘cardinale’ che tanto irride alla personalità delle nostre guide spirituali. Infine, il ‘tesoro’ che veste la svestita Parthenope per soddisfare il desiderio carnale del presule dentro la chiesa, dove – nel consumato incontro tra lui e la giovane – quel miracolo avviene come risposta all’eccitazione carnale… Basta. È troppo per i fedeli. E tutta la comunità dei cristiani cattolici si ribella e ribolle di disgusto e di indignazione”.
E sempre in riferimento al contenuto come non sottolineare quei passaggi della falsa Sofia Loren (impersonata da Luisa Ranieri) che straparla dei mali di Napoli o della scena de figlio e della figlia di due boss che si sposano e sono costretti a congiungersi carnalmente davanti a tutti i parenti appartenenti ai due gruppi per sancire, indelebilmente, la pax camorristica. Saviano non è mai giunto a tanto.
Le reazioni della critica, come accennato, sono state assolutamente divergenti. C’è chi lo osannato, come Edoardo Ferrarese (“Uno stupendo atto di amore per Napoli”), o Paolo Nizza (“Un indimenticabile viaggio alla scoperta dolente e abbacinante di una metropoli velata e rivelata, perduta e ritrovata”). Ne abbiamo citati due per tutti. Ma c’è anche chi lo ha stroncato, come Antonio Fiore sul “Corriere del Mezzogiorno” o come Goffredo Fofi (“Sorrentino e Parthenope senza poesia e senza storia”). Ma si tratta solo di pochi esempi rispetto alla marea di commenti, pro e contro, che si è scatenata soprattutto nei primi giorni di novembre, ad un mese dall’uscita del film e in fondo anche con un certo ritardo.
Insomma “odi et amo”. A conferma che comunque Sorrentino è un artista che provoca e che fa discutere, che divide. Peccato solo che Parthenope, come già accaduto per esempio per “La grande bellezza”, per comprenderlo fino in fondo, in tutte le sfaccettature, bisognerebbe vederlo, come detto, almeno un paio di volte. Se lo fai, finisci col capirlo e puoi anche concludere che in fondo è un film discreto. Ma quanti di noi, comuni mortali, se decidono di andare al cinema, vorrebbero non essere coinvolti in astrusi arzigogoli mentali?
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