
Ristorazione, il lato oscuro di Napoli
Napoli si prepara ad accogliere frotte di turisti. Nei prossimi mesi se ne aspettano 17 milioni. Purtroppo i visitatori italiani e stranieri dovranno fare i conti con due problemi diventati cronici: la mancanza di personale qualificato e il lavoro sommerso. Gelatai, macellai, gastronomi, addetti al pesce. Ma anche, camerieri di sala, barman, cuochi, pizzaioli. Il tutto, per un totale di 258mila dipendenti “introvabili”. È l’allarme di Confcommercio, che rilancia uno dei temi sempreverdi del panorama occupazionale, ossia il mismatch domanda-offerta di lavoro, in questo caso per i settori del commercio, della ristorazione e dell’ospitalità. Il fenomeno del disallineamento tra ciò di cui le imprese hanno bisogno e quanti italiani sono disposti o interessati a svolgere tali mansioni è in crescita rispetto allo scorso anno. Secondo i calcoli della Confcommercio, nel 2025 ci sarà il 4% di posti vacanti in più rispetto ai 12 mesi precedenti. Una vera e propria «emergenza che rischia di frenare la crescita economica dei settori, ma anche del prodotto lordo dell’intero sistema economico italiano». Tra le motivazioni del problema, ci sono «ragioni strutturali come il calo demografico nelle fasce più giovani della popolazione (4,8 milioni in meno tra il 1982 e il 2024 nella fascia di età 15-39 anni)». Ma non solo. Pure la «rarefazione» dei lavoratori che hanno profili adeguati per svolgere certi mestieri «in termini di conoscenze, abilità e competenze», le grandi variazioni nelle preferenze occupazionali dei potenziali dipendenti e una «ridotta disponibilità alla mobilità territoriale». Oltre alle prestazioni sottopagate e spesso non contrattualizzate.
Una ricerca di RestWorld – incentrata su ben 3.471 persone ambosessi, di età compresa fra i 20 e i 40 anni (il 79%), di cui il 77% è composto da “addetti ai lavori”, il 12% da titolari di imprese ricettive e da un restante 10% che dichiara di non lavorare nel settore – offre risultanti allarmanti. Il primo dato rilevante ha dimensioni preoccupanti: ben il 91% degli intervistati afferma di aver avuto esperienze di lavoro in nero. Quindi, resta un esiguo 9% che afferma di non aver mai rinunciato alla tutela contrattuale. Passando a domandare la condizione lavorativa attuale, questo dato va ridimensionandosi, rimanendo comunque alto: il 54% dichiara, infatti, una qualche forma, anche parziale, di irregolarità nel proprio contratto, contro il 46% che afferma invece di essere del tutto in regola. Traslando i dati della ricerca di RestWorld su questi numeri, si potrebbe stimare che oltre 500mila persone non vedano riconosciuti i propri diritti, causando inoltre, perdite ingenti per le casse dello Stato. Per quanto riguarda la posizione degli imprenditori, invece, il 68% ammette di aver fatto ricorso all’impiego di manodopera irregolare. Le ragioni prevalenti riguardano la necessità di un inserimento rapido della risorsa, aspetto peculiare di queste attività che mal si adatta agli iter burocratici richiesti da un’assunzione regolare. Emerge, quindi, l’assoluta necessità di individuare forme contrattuali specifiche per il settore, che tengano conto dell’elevata flessibilità che lo caratterizza. Questo, però, non esaurisce le ragioni degli imprenditori che ricorrono al lavoro nero. Il 36% dichiara, infatti, che l’assunzione presenta costi non sostenibili. Unendo questo dato al 21% che lamenta un eccessivo carico burocratico, si può affermare che oltre la metà dei titolari si sente, in qualche modo, spinto dall’ente normatore ad optare per l’illecito. In ogni caso, emerge un significativo 63% degli imprenditori intervistati che dichiara, invece, di operare nel pieno rispetto della contrattualistica. Sebbene il 37% che ammette irregolarità non sia un dato trascurabile, è naturale interrogarsi sulla reale impossibilità di far fronte alle richieste della normativa, laddove più della metà dei titolari d’impresa riesce, invece, a lavorare nel rispetto delle regole.
Anche perché oggi l’ospite è sempre più attento ed esigente in materie come la legalità, la sostenibilità, l’impatto zero e le tecnologie.
Napoli e la Campania – hanno sottolineato gli organizzatori della VI edizione di HospitalitySud – devono essere all’altezza delle destinazioni per non rincorrere l’onda della contemporaneità e dell’overtourism, riqualificare le strutture e portarle a standard di unicità e professionalità, valorizzandone gli spazi.
La crescita record dell’industria turistica anche nella nostra regione si riflette nella maggiore richiesta di forniture e servizi da parte del mondo dell’ospitalità con un aumento degli investimenti nell’alberghiero, soprattutto da grandi marchi di catene alberghiere internazionali e in altre attività turistiche, ristorazione in primis. Napoli deve essere attrattiva, ma anche sostenibile in relazione alla capacità recettiva senza snaturare l’identità del centro storico, vista la notevole crescita delle presenze turistiche. Ma soprattutto deve contrastare il lavoro nero. Un compito difficile e un fenomeno non misurabile. I controlli sporadici, con qualche sanzione e chiusura temporanea delle strutture, non bastano a cambiare la cultura d’impresa e le modalità di ingaggio di imprenditori che puntano al bisogno di manodopera e sfruttano i lavoratori e le lavoratrici.
Insomma, non trovare personale qualificato e in regola – dichiara la stessa Confcommercio – «è un lusso che il nostro Paese non si può proprio permettere». Per questo, «le imprese devono essere supportate nella formazione ed è strategico anche il rafforzamento del legame fra formazione-istruzione e tessuto produttivo così da orientare i giovani accrescendo le loro motivazioni e offrire opportunità di percorsi di stage, tirocini e apprendistato che coniugano formazione e lavoro, favorendo l’occupabilità». Carlo Sangalli, presidente di Confcommercio, aggiunge che per lui bisogna «sostenere le imprese che investono in nuova formazione, anche di immigrati, e rendono più competitivo il nostro Paese. Anche il ruolo delle parti sociali che firmano i Ccnl è essenziale». (M.C.)
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