Spullecarielli e cucuzzielli

di Daniela Esposito

Una piccola rassegna sui piatti tipici della cucina napoletana acquista un altro sapore se ci si sofferma sui nomi delle pietanze, nomi talvolta curiosi, che auspichiamo “tradurre” piacevolmente.
Si potrebbe ad esempio partire da una scafarea di spullecarielli, continuare con due cucuzzielli alla scapece accanto a una pezzentella al ragù, per poi terminare con una guantiera di mustacciuoli.
Per un napoletano verace, però, un pasto che si rispetti non è tale se non accompagnato da pane, e quindi quale miglior modo di affrontare un menu se non partendo dal pane? Infatti, nonostante tutte le diete, i grissini , e i cracker del mondo, non si riuscirà mai a convincere un partenopeo a gustare – chessò – una bella parmigiana ‘e mulignane accompagnandola con tali surrogati del divino alimento. Oltretutto a Napoli c’è una varietà di “pezzi” autoctoni non riscontrabile in altri luoghi d’Italia. Possiamo cominciare ad esempio con un cuzzetiello (da “cozzo”, parte finale e croccante) rigorosamente spiccato da un palatone, ossia grande palata di pane, per coloro che non vogliono correre il rischio di rimaner affamati: una sorta di alto e grosso filone (può arrivare a pesare anche un chilo e mezzo), con la crosta compatta e croccante, dalla mollica particolarmente elastica, è molto sapido e saporito e deriva il suo nome semplicemente dall’attrezzo usato per infornarlo, una pala, appunto. Ma su questo nome ci piace accogliere anche un’altra ipotesi, più articolata e indubbiamente più fantasiosa, che invece fa risalire l’etimo addirittura alla spola, l’attrezzo adoperato in tessitura per intrecciare i fili della trama con quelli dell’ordito e dalla cui forma, effettivamente, potrebbe aver tratto origine il saporito palatone, ideale da intingere nel ragù o nella genovese.
Altro “pezzo” forte e molto comune sulle tavole napoletano è il panello, originariamente panella, ossia una grossa pagnotta dalla forma rotonda e la crosta croccante, che le nonne usavano tagliare afferrandolo tra le braccia. In questo caso l’origine del nome è francese (per non dimenticare la dominazione d’oltralpe a Napoli), e precisamente deriva dal francese antico panel a sua volta derivato dal latino medioevale panellus e questo da panis. Il panello, profumato e dal sapore rustico, è irresistibile accompagnamento di sasicce e friarielli. Ma se proprio si vuole godere di questo panello fino in fondo, allora che sia cafone!
Già, cafone, ossia proveniente dalla provincia o quantomeno da quel non ben definito circondario cittadino che a tutt’oggi si ritiene intriso di genuinità (sic!) e che quindi trasfonderebbe tale caratteristica ai cibi tramutandola in sapore intenso… Ma cafone? Forse da Cafo, personaggio ben noto a Cicerone, che lo cita quale arrampicatore sociale ante litteram: contadino, fece rapida carriera nell’esercito di Cesare per poi tornare, arricchitosi, nella sua amata terra di Capua spadroneggiandovi rozzamente. O forse da kafàr, parola di origine osca, il cui significato è zappare e che ci riporta alla terra e alla campagna. O forse ancora dal greco kakòfonos, ossia accostamento di suoni e parole sgradevoli da udirsi che potrebbero essere quelli di chi, proveniente da fuori città, non conosce l’aggraziato parlar cittadino. E vogliamo tralasciare il latino cavàre, ossia scavare, zappare, quindi ancora di argomento agreste? Strano come un aggettivo possa vantare connotazioni tanto differenti pur indicando esattamente la stessa cosa: campagnolo…
Ma oltre al panello, cafone o no, altro gustoso “pezzo” è la cocchia. Anch’essa di forma oblunga, ricorda il palatone pur essendo molto più piccola di questo. Ma la cocchia è cocchia soltanto in principio, quando non ancora diventata la metà. Cerchiamo di spiegarci: la cocchia, originariamente cocchia de pane, sta infatti per coppia di pani, ossia due pani attaccati insieme. Ma si ha la sensazione che oggi di questa coppia sia rimasto ben poco: non si riesce, a occhio, a definire dove sia avvenuta questa unione dapprima e divisione poi in due pezzi di pane che presentano invece una crosta chiara, compatta e uniforme, al contempo morbida e cedevole, che racchiude una deliziosa mollica soffice. E gustare la cocchia con provola e mortadella è piacere ineguagliabile!
Daniela Esposito
(Tratto da “Sapori da sapere”, Editrice Inthesa Fa, XXV)

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